DI UNA BUCA E DELLA MESTIZIA CHE NE SEGUÌ
Un triathlon finito prima del dovuto a causa di una foratura e quel sentimento di delusione che impregna i pensieri nei minuti che seguono. Cronaca mal riuscita di un abbandono per causa meccaniche, dirà il referto al Santini TriO Senigallia.
La mia personale idea di gara di successo è uno spazio fisico, e si concretizza nei cinquanta metri che precedono il traguardo. Un film che dura una manciata di secondi fatti di striscioni colorati, voci di speaker, musica bum bum bum, applausi del pubblico, quando presente. Il segreto di una buona pasta è la pasta, dice la pubblicità, e il successo di una gara, per me, è portare a termine la gara. Non chiedo molto, non ho grandi ambizioni di classifica, solo tagliare il traguardo e fermarmi. Sì, fermarmi col fiatone, ansimando per aver dato tutto. E come me altre centinaia di migliaia di cuore sognanti in tutto il mondo. A me e a questo popolo di guerrieri del weekend servono tre cose per raggiungere la felicità: un fisico che sorregga il nostro progetto di vita sportiva, una mente che ti aiuti a non mollare mai, e un cuore disposto a gettare le reti nel mare delle emozioni. Tutto qua. Una specie di triathlon del buon vivere.
A dire la verità ce ne sarebbe una quarta: la buona sorte. Quella che mi è mancata nella gara di sabato, non che ne faccia una tragedia, sia chiaro, ma ci tenevo a portare a termine il Santini Trio Senigallia, avevo un conto aperto per la bandelletta del ginocchio sinistro che un anno fa fece i capricci nei giorni prima della gara.
E allora eccomi qui, di fronte a un mare molto ma molto arrabbiato, che ha costretto Andrea e Max a trasformare il tanto agognato olimpico in un duathlon last minute. Difficile per i due organizzatori prendere la decisione ma alternative non ce n’erano.
Cinque chilometri di corsa sostituiscono i 1500 metri di nuoto, e poi tutto come da programma, quaranta di bici nell’entroterra marchigiano e due giri a piedi sul lungo mare di Senigallia fino al porticciolo.
Siamo in cinquecento. Io parto nell’ultima griglia, quella dei “mica punteggiati”, quella dei body attillati che non perdonano neanche un rotolino addominale, quella di chi “fatte due gare, presi i punti del ranking, poi non mi vedete più voi dannati dell’ultimo girone dantesco”.
Si parte. Quattro e 10 al chilometro, che poi diventano quattro e 15 che poi scivolano a quattro e venti, e poi arriva la zona cambio.
Tic, tac. Scarpette agganciate e via. Sottopasso a esse bagnato passato indenne, un paio di curve e la strada conduce i triplici verso le colline. Sono lì che respiro e … nooooo: buca e bucato. Devo avere preso una fessura piccola piccola, sufficiente per pizzicare la camera d’aria. Sono solo al terzo chilometro della bici. Mi fermo, strappo la bomboletta e la impugno come un’arma: la infilo sulla valvola ma senza successo. Non mi dispero, tolgo la camera d’aria e la sostituisco con una nuova: prendo la seconda bomboletta e… niente. Non succede niente. Dico una parolaccia, anzi due. Non succede niente. Rifaccio la procedura. Niente. Cambio parolaccia, ma ancora niente. Sfilo la bomboletta e puffffffffff tutta l’aria esce. Scoramento. Ormai sono solo, non passa nessuno, l’ultimo concorrente sfila via. Si ferma il servizio scopa: «Monta, però dobbiamo fare tutto il giro». Ma no, grazie, me ne torno a piedi. E mentre mi avvio verso la zona cambio penso alla mestizia del ritiro: la tristezza che porta con sé un dolore sottile che si eleva per dignità (in fondo ho fatto di tutto) e per sobrietà (via, solo un paio di sconcezze …). Mentre cammino sull’asfalto bollente sopraggiungono i primi due concorrenti, riconosco Barnaby che poi vincerà per distacco, e e poi altri e altri ancora. Mi guardano, come si guarda la sfiga che non vorresti mai avere, e che invece oggi tocca a me. Mi assale la malinconia ombrosa di chi deve arrendersi, lo scoramento per tanta attesa mal riposta, accorato appello al Signore delle camere d’aria, che oggi, diciamolo, con me è stato un po’ distratto. Quando giungo in zona arrivo vado mestamente da una Polo Rossa a dire che sono ritirato e consegno il chip. Poi mi fermo appoggiato alle transenne e guardo gli arrivi di tutti quelli che posso. Li applaudo. Oggi sono io il pubblico.
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