LA SEMANTICA DI UNA DOMENICA MATTINA ALLA DEEJAY ONE HUNDRED
Prendi un disc-jockey che non mette più su i dischi, ma che preferisce correre (all’inizio) e pedalare (adesso), e dagli le chiavi sportive della Città di Milano. Ecco che dal cilindro tira fuori un evento inaspettato, bello e divertente, e soprattutto poco invasivo per cittadini che non vogliono saperne di casini domenicali in downtown. E noi in gruppo a rispolverare il vocabolario del ciclismo.
Oggi Milano ride, o così a me sembra. In realtà sarebbe più corretto dire Milano Ride, anzi Vodafone Milano Ride, il nome esatto dell’evento, ma a me piace pensare che dall’inglese “ride” alla terza persona singolare del verbo ridere, la congiunzione siano soltanto 100 chilometri pedalati a tutta. Che metropoli
ciclistica, si dirà: è il secondo evento ciclistico nell’arco di poco tempo, dopo la Granfondo Milano di settimana scorsa, tanto che, secondo me, ha fatto sor(ride)re anche la Madonnina che non ha mai visto così tante Specialized e Colnago come in questo settembre. Bene, vien da dire, anche se è ancora in salita la strada della cultura della ciclabilità in città: un’amministrazione pubblica in perpetuo surplace. In realtà la voglia di cicloturismo è manifesta anche dalla partnership con InBici On Tour, due giorni dove personaggi di varia natura, ex ciclisti e blogger pedaleranno su 7 tratti dei 10 grandi itinerari presenti in Lombardia, perché questa regione non è solo società di consulenza, fabbriche e industrie, e campi da coltivare: i lumbard sanno anche essere turistici e ospitali. Tra gli ambassador c’è anche Alessandro Vanotti che dopo 17 anni di professionismo adesso si dedica ai camp formativi per amatori che ritroverò nel dopo gara con il consueto: “Allora, com’è andata…?”
Ma questa è un’altra storia, la vera storia di oggi è la DJ 100, anzi DeeJay One Hundred, perché diciamolo, l’inglese fa figo. L’evento potremmo definirlo il Linus 2.0, la versione ciclistica delle DJ Ten, una granfondo calata in una manifestazione di più ampio respiro che ha visto anche gare di mountain bike, prove di scatto fisso (prima o poi la compro…) e pedalate per le famiglie. Entro in griglia, nell’ultima, quella in coda, e chiamo l’Antonio al cellulare che però non risponde: il dentista gli ha detto che con sei punti nella gengiva fatti per bloccare una emorragia in corso, il ciclismo è assolutamente da evitare. Conoscendolo sarà al via, ma non risponde e allora lo penso ancora a letto, con il ghiaccio sulla guancia. Vabbhè, la farò da solo, ‘sta DeeJay 100.
Cosa mi ha spinto a Milano a partecipare alla granfondo, lo confesso, è stato il luogo: come quartier generale il signor Linus ha scelto il Vigorelli. Mica un luogo qualunque. Lui è consulente del sindaco Sala per gli eventi sportivi, con accesso facilitato agli impianti della città. Come il tempio del ciclismo, per dirla alla Brera. Fausto Coppi qui ha fatto il record dell’ora nel 1942, e io in un pomeriggio assolato del 1986 ho visto girare Francesco Moser: ero con l’Arnaldo, e forse c’era anche l’Attilio. Espone pure Masi, tre bici d’epoca da pistard. Di questo ovale Mario Fossati ha scritto una cosa che per me sa di poesia: «I vecchi ritrovavano la pista, risentivano il rombo sordo, il suono del passaggio di due cerchi leggeri. Il Vigorelli respirava a cielo aperto: esisteva». Che meraviglia.
E poi i concerti: quello dei Beatles avevo un anno quindi l’ho saltato, ma in quello dei Toto del 1982 ero nel prato. Certo, i due gruppi non sono paragonabili, però io al secondo c’ero. Così come c’ero (ci sono stato…) alla prima edizione della Dj 100, praticamente la prima granfondo tutta piatta che abbia mai fatto: il mio Garmin segna 256 metri di dislivello su 106 chilometri. Ma nonostante lo sviluppo altimetrico sia stato prossimo allo zero, è stata una gara tirata al massimo come non ho provato mai, perché anche se pedali in gruppo, devi sempre menare. E menare a tutta, perché la cosa peggiore è restare solo, al vento. Quindi ventre a terra e via.
Dopo un’ora, siamo a 34 chilometri dal via. Niente male, penso. Intanto a ogni curva, ogni rondò, ogni svincolo è tutto uno scattare e rincorrersi. “Chiudi il buco” mi dice uno: sono dell’ambiente e so cosa vuol dire, ma in altre occasioni questa frase sarebbe stata causa di malintesi. Io provo con un “ragazzi, cambi regolari…” ma l’idea di stare davanti un minuto, spostarsi a sinistra, lasciare spazio al secondo e scivolare in fondo al gruppo, sembra un onta che un amatore non può sopportare. E quindi tutti davanti a tirare, spaccandosi le gambe, come fossimo a un Mondiale (quello lo vedremo nel pomeriggio in televisione…).
A tutta per le prime due ore di gara. Poi ai più esce la spia della riserva, e quelli che facevano i ganassa all’uscita da Milano, se ne stanno buoni buoni fino al triangolino rosso dell’ultimo chilometro. E lì capisci quanto la posizione in gruppo sia fondamentale: devi stare esattamente in scia a quello che ti precede, entrare nel vortice dell’aria, succhiargli la ruota (…che è una metafora un po’ forzata ma rende l’idea). Devi stargli attaccato, ed ecco perché “limare” è, dopo “chiudere il buco” il verbo più usato. E poi se pensi di andare in fuga, come ho fatto io prima di Magenta, e nessuno ti segue per darti il cambio, ti ritrovi a cuocere (ecco che il dizionario del ciclista si arricchisce di un’altra espressione) da solo nella Pianura Padana, nell’attesa ineludibile che il gruppo ti riprenda quando sarai bello che bollito (sì, anche bollito è parte del Garzanti del ciclismo….). Dimenticavo, menare è un altro slang del gruppo, come ventre a terra.
In fondo al rettilineo di Pero si vedono i grattacieli della nuova Milano. Vigili, Polizia e volontari bloccano il traffico al passaggio dei gruppi di ciclisti: nemmeno un clacson che strombetta, nemmeno un vaffa dagli automobilisti. Tutto sembra essere stato poco invasivo per una città indolente allo sport che non sia in uno stadio.
Svolta a sinistra e gli ultimi duecento metri: l’arrivo. E poi si entra nel Vigorelli per tornare a respirare insieme a quelle assi di legno di un ciclismo che non c’è più. E per quanto mi riguarda, sono proprio felice, mica per la media di 35 km/h, ma per quell’idea di bicicletta per cui oggi Milano ride. No aspetta, Raid…Ride…insomma quella roba lì.
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