TOMMY SIMPSON E QUEL SORSO MALEDETTO
All’anagrafe faceva Thomas di nome, ma tutti lo chiamavano Tom, molti Tommy. Si sa i soprannomi non si scelgono, tanto meno i diminutivi: quelli nascono tra le vie dove si giocava da bambini o, come nel caso di Tommy Simpson, dai propri tifosi che, chissà poi perché, consideravano il proprio campione come l’amico con cui fare scorribande tra le vie di Haswell, il suo paese. Io per esempio, ho dato a mio figlio il nome Tommaso per poter essere libero di chiamarlo Tommy, senza per questo correre per le vie di Redona con un bambino di pochi mesi.
Ma torniamo al nostro ciclista e a Haswell, Contea di Durnham, a metà tra Londra ed Edimburgo. Simpson nasce nel 1937 in una casa modesta affacciata sull’Atlantico in una epoca in cui il ciclismo in Inghilterra non era famoso e praticato come lo è oggi. Nel dopoguerra lo sport della bicicletta era cosa da centro Europa, sull’asse Francia e Italia, e la lingua madre era il francese, ultimo baluardo internazionale della comunicazione oltreconfini di Arianna. Oggi se non parli inglese non sei nessuno e non puoi intervistare Froome, Wiggins e tutta quella gente lì.
Simpson lascia ben presto Haswell per trasferirsi a Harworth, nella contea di Nottingham: qui c’è una bicicletta, una sola, che condividono fratelli e cugini. Nelle gare per le vie del paese, Tommy vince sempre. È più forte, e così si ritrova a pedalare su pista che all’epoca, come ora, in Inghilterra riscuote un gran successo, e torna dalle Olimpiadi di Melbourne nel 1956 con un bronzo nell’inseguimento a squadre. Tre anni più tardi è un pro su strada, e inizia a farsi vedere, nonostante il suo passaporto sia inglese, paese privo di tradizione ciclistica, quindi poco autorevole. Io penso che Tommy abbia faticato il doppio, perché oltre ad andare forte ha dovuto lottare per avere credibilità in un ambiente chiuso e protezionista come il ciclismo degli anni 60, ma sapeva che c’era un solo modo per affermarsi: vincere.
La faccio breve: nel 1961 vince il Giro delle Fiandre e tre anni più tardi la Milano Sanremo. Arriva il 1965 dove domina il Campionato del Mondo su strada, a cui segue il Giro di Lombardia. Le chiamano le gare monumento, e lui ha vinte. Insomma, fino a quegli anni e per molto tempo a seguire, non si era mai visto un inglese così forte, tanto che tra i favoriti del Tour de France del 1967 c’è lui, l’inglese Tommy Simpson che dopo la vittoria alla Milano-Sanremo, viene nominato baronetto dalla Regina Elisabetta II.
Il Tour parte ma lui fa fatica a ingranare, e sulle Alpi ha anche problemi di stomaco. Il suo manager gli comunica che ha appena chiuso la trattativa e l’ingaggio per l’anno successivo con la formazione italiana Ignis: Tommy quasi non ci crede, si realizza un sogno perché ama l’Italia e vorrebbe venirci a vivere. Ma i contratti si firmano a fine stagione, quindi al Tour è importante mettersi in mostra a tutti i costi. Quindi deve risalire la classifica. La sera del 12 luglio, vigilia della 13° tappa, pare che Simpson abbia una accesa discussione con il manager che lo informa che se non migliora la sua posizione in graduatoria si rischia l’annullamento del contratto con la squadra italiana. Qualche ora dopo in hotel si presentano due sconosciuti che danno a Simpson tre tubetti di anfetamine al prezzo di 800 sterline, un prezzo altissimo per l’epoca, ma in gioco c’era l’ingaggio con la mitica Ignis.
La mattina dopo ci si sveglia con la tappa Marsiglia – Carpentras, e il passaggio in vetta al Mont Ventoux. Fa un caldo bestia, terribile, non si respira e il nostro non è in forma. Tommy chiede da bere a un compagno di squadra (a quel tempo non era possibile avere il rifornimento dalle macchine ammiraglie). La leggenda dice che il compagno si ferma in un bar, precedentemente svuotato da altri corridori, e non trovando niente da bere, ruba una bottiglia di cognac. Quando lo raggiunge, Simpson, senza neanche guardare di cosa si trattasse, ne beve un sorso per poi gettarla quando si accorge del contenuto. Io immagino anche le imprecazioni verso il compagno, verso la salita, verso il ciclismo, e forse anche verso la vita.
Nell’ascesa Simpson apre uno dei tubetti acquistati la sera prima, e ingerisce una pasticca. Non si sa quante ne abbia prese, e forse neanche è importante saperlo. Le cronache dell’epoca dicono che ben presto inizia a zigzagare, sbanda a tal punto da cadere. Cade una prima volta a pochi chilometri dalla vetta e il meccanico del team Peugeot lo rimette in sella. Lo sguardo perso nel vuoto. Qualcuno gli porge una bottiglia di acqua e lui non se ne cura, sembra in trans. Dopo una decina di metri cade una seconda volta. Lo rimettono in sella, è il corpo di un atleta senza più anima. Pedala per qualche metro e cade la terza e ultima volta. Non si rialzerà più. Era il 13 luglio di 50 anni fa. In questi anni la figlia Joanne organizza eventi e incontri perché la memoria del padre non resti infangata dalla storia di una morte assurda. Certo le anfetamine, ma anche il caldo, la disidratazione, lo sfinimento e quel cognac furono una miscela letale al quale il cuore di Tom, ancorchè di un talentuoso campione, non è riuscito a resistere.
E io oggi, dopo aver chiuso la seconda tappa della Haute Route Ventoux, mi sono fermato, proprio lì, dove è caduto la terza e ultima volta. Dicono che nei giorni di forte vento il suo nome riecheggi tra le nuvole e il cielo, e questa è una storia per chi ha fede. Io invece penso a una bambina che è cresciuta senza il suo papà, e penso anche al papà e al suo sogno di vincere per la sua bambina.
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