LA MARCIALONGA E LA PIU’ BELLA AGONIA
La madre di tutte le granfondo nel racconto semiserio di un incorreggibile ottimista che pensava di gareggiare basandosi solo sulla sua attrazione per la fatica. Ma quando è troppo è troppo.
Le teste di quelli in coda al pasta party, nel Palafiemme di Cavalese, sono tutte girate a destra, il loro sguardo è rivolto al grande monitor in sala: passano le immagini degli ultimi tre chilometri della Marcialonga 2018. C’è un brusio in sala che si fa spazio tra il rumore dei vassoi e gli abbracci di fondisti norvegesi che si raccontano la propria gara. La mia non vorrei proprio raccontarla, perché un decantato di sofferenza e delusione, ma questa è un’altra storia. Ogni tanto la coda si muove, e davanti a me si liberano un paio di metri: li percorro e giro subito la testa verso le immagini della Cascata. Sono in quattro, tutti in fila. Spingono di braccia in modo cattedratico: il loro pendolo è finito, nel senso di perfetto. Sono a tutta, e nessuno di loro si scompone. Magari a qualcuno non piacerà questo stile, ma io ne sono affascinato. Il profumo della pasta impregna la sala mensa. E chi se ne frega se non vedo più il passo alternato: ho vissuto gli strali scandinavi all’introduzione dello skating, e ricordo come un dramma collettivo le infinite polemiche alle prime gare sprint.
LA CASCATA E’ COME IL MURO DI GRAMMONT
Oggi tutto viene accettato e non più messo in discussione. Anzi, l’evoluzione della specie ha consentito il ringiovanimento di uno degli sport più antichi dell’Olimpo. Ed è proprio dal nord che spira questo vento fatto di professionisti dei binari, con team e strategie che ricordano le atmosfere del ciclismo su strada. La Cascata della Marcialonga è come il muro di Grammont al Fiandre. Certe salite fassane ricordano il Poggio alla Sanremo. Per 67 chilometri si va a spasso, qualche scaramuccia, e poi si apre il gas ai primi tornanti. La coda si dirada, davanti un ragazzo di una trentina di anni allunga e io, col vassoio in mano, chiudo il buco. Insieme commentiamo le spinte dei quattro lassù: metronomi da mille watt, stantuffi senza vapore. Io penso alle mie di spinte: le prime, quelle nella piana di Moena, fresche e pimpanti. Quelle successive, che hanno segnato i 69 chilometri per tagliare il traguardo, testimoni di un calvario da non ripetere più. La coda avanza e sul vassoio arancione ci appoggio il piatto di plastica mentre con lo sguardo aspetto il momento decisivo dello scatto di uno dei quattro in fuga. Anch’io ho pensato alla fuga, quando arrivato a Soraga ero già circondato da pettorali il cui primo numero era un 2: io partito col 1600 ero in mezzo a uno stormo di duemila. Una fuga a casa, sia chiaro. A Canazei i tremila mi assediavano. Al passaggio da Predazzo i quattromila non li contavano più. Nel vassoio la signora ci versa un paio di mescoli di pasta al ragù, il signore dopo ci butta un wurstel. Sorrido e ringrazio, un’abitudine sin dai tempi della naja. Chiedo la cortesia di un paio di bottiglie d’acqua, grazia concessa. Alle mie spalle un piccolo boato: nel video si vede il secondo uscire dalla scia del capofila e tentare l’allungo. Io mi fermo con il vassoio colmo, una mela che rotola e le due bottiglie in precario equilibrio.
CHE NOMI RAGAZZI. CHE BRIVIDO.
Quell’instabilità che qualche ora prima ho provato nelle discese ghiacciate della val di Fassa, dove il nostro spazzaneve contribuiva a lisciare la pista accumulando all’esterno conglobi di neve polverosa che solerti volontari ributtavano sotto le nostre solette. E di pettorali mille, lì a Predazzo, c’era solo il mio. A casa guardo le classifiche finali e ci trovo tanti nomi noti, come quello di Gianfranco Polvara che chiude al 181esimo posto, ma soprattutto il Pulver si toglie la soddisfazione di aver rifilato a Bjoern Daehlie un bel minuto abbondante. In coda al pasta party controllo Strava, e faccio una ricerca per vedere quanti chilometri di fondo ho fatto in questo inverno: 160! Di cui 70 oggi. Mi siedo a fianco del ragazzo di Reggio Emilia che mi ha fatto compagnia nella coda. Un buon appetito con il naso al video decreta il via alla prima forchettata, mentre il tentativo di fuga rientra e i quattro sono ancora allineati e coperti. Li guardo con ammirazione: non una sbavatura, non un cedimento. Sembra non facciano fatica, dicono dal tavolo a fianco. Sembra. Io faccio fatica a finire la pasta, lo stomaco è chiuso. Provo con il wurstel ma ho dimenticato la maionese. Peccato. Nel bere alzo la testa e vedo i quattro tra i vicoli innevati di Cavalese. Mi ricordo quel punto: è una esse in salita, roba da skilift, e loro a spinta. No, la mela no, la mangio dopo. Attenzione, il pubblico rumoreggia: siamo allo sprint. La testa pelata di Gjerdalen è dietro, davanti il russo Ilya Chernousov (2:48.08) che per un amen infila il suo sci prima di quello di Tore Bjoerseth Berdal, e più indietro Morten Eide Pedersen. In sala è pieno di norvegesi, e nonostante tre norge si siano fatti infilare da un tispiezzoindue parte l’applauso. Bravo Ilya, accidenti a te. Adesso anche i russi spingono alla grande. Non è più il fondo di una volta.
SENTO IL PROFUMO DEL TRAGUARDO
Passo per il punto in cui i tracciati si sfiorano: io scendo, quelli che salgono faranno ancora cento metri e si buttano nel tunnel che precede la Cascata. Non è che son stanco, sono semplicemente e felicemente sfinito. Il Garmin mi segnala 62 chilometri fatti, ne mancano ancora otto, forse nove. Sono vuoto come una lattina di Coca aperta e lasciata tutta l’estate al sole. Le energie sono evaporate da mo’ e procedo per inerzia, trascinandomi fino giù in fondo alla valle dove il giro di boa mi porta al ristoro. Bevo e mangio tutto quello che trovo, consapevole che è troppo tardi. Al pasta party non mangio e non bevo tutto quello che ho nel vassoio. Non riesco a staccare lo sguardo dal grande schermo: ora è la volta delle donne. Cazzarola, anche loro spingono di braccia sulla Cascata. Non sono più le donne di una volta. Incontro Angelo Corradini al ristoro e il suo ‘Ciao Carlone…’ mi rigenera per una decina di secondi. Poi cado nuovamente nella deambulazione della scivolata spinta. Sotto le ascelle sento persino bussare un principio di crampi, mai provati prima d’ora, come se non si finisse mai di scoprire il proprio corpo. Tunnel e anch’io sbuco ai piedi della Cascata che salgo velocemente senza fatica (in questo punto del racconto avevo voglia di scherzare, nda). Passo tra le vie di Cavalese: “milleseicentosessantotto….dai ….forza Carlo….Carlo Br…ma è il direttore di SciFondo …daiiiii….”. Accidenti a chi ha avuto l’idea di stampare l’elenco dei partenti. Parte il secondo applauso al pasta party, non è per me ma per lo sprint tra le due fondiste, con la svedesina Britta Johansson Norgren che sconfigge Katerina Smutna. Io invece attraverso il traguardo e la Mimì mi infila al collo la prova provata della mia agonia. Mi devo ricordare di mandare a Manuel Bottazzo i complimenti per il nuovo logo della gara, e perché la medaglia è davvero stupenda. In silenzio ritiro il sacco blu con dentro la mia roba e vado al Palafiemme per il pasta party. Il resto lo sapete.
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