IN ATTESA DEL TOUR DU RUTOR
Sopralluogo lungo i tracciati della gara a tappe tra le più rappresentative nel mondo dello scialpinismo. Si tiene negli anni pari, e questo 2019 è stato l’occasione per conoscere qualcosa di più non solo della competizione, ma del territorio che la ospita.
Photo Credit: Stefano Jeantet e Maurizio Torri
L’hanno fatto lo scorso anno e lo rifaranno nel 2020: il Tour du Rutor è cadenza biennale ed è uno di quegli eventi di scialpinismo che lasciano il segno. Lo lasciano nel territorio perché una gara di quattro giorni con 700 partecipanti richiede una macchina organizzativa con i controfiocchi; lo lasciano nelle gambe dei concorrenti che devono mettere in conto di vincere oltre 9.000 metri di dislivello, e lasciano il segno anche negli appassionati di pelli ed alta quota perché il Tour du Rutor è un po’ quella gara che “vorrei ma non posso” perché i tracciati che Marco Camandona disegna ogni due anni, non sono da tutti.
Lo spiega la stessa Guida Alpina mentre illustra la gara della prossima stagione: lui che ha le redini della manifestazione, ma che guarda al suo gioiello come a una splendida occasione per mettere in vetrina questo angolo di Valle d’Aosta. «La prima edizione risale al 1933, era il mese di luglio, e prevedeva il periplo del ghiacciaio del Ruitor…. » spiega Camandona ai presenti nella sala consiliare di Arvier, e ogni parola trasuda di passione, entusiasmo, duro lavoro, ma anche occhi puntati in alto verso il cielo a guardare il meteo che cambia e i piedi ben piantati per terra a significare che bisogna essere realisti e consapevoli, e che con sua maestà la montagna, non si scherza.
CENNI STORICI
Guardando la data di nascita del Tour du Rutor si direbbe che lo scialpinismo come lo conosciamo noi, sia nato in queste terre, ma ci pensa lo storico di montagna e giornalista de La Stampa, Enrico Martinet, a mettere ordine nelle affermazioni che sono spesso oggetto di dispute di campanile: «Lo scialpinismo nasce nell’Oberland Bernese sul finire dell’800 come risposta alla richiesta di frequentazione della montagna anche d’inverno….». L’intervento del giornalista torinese è di quelli che spaziano dalla storia della disciplina ad aneddoti anche dal sapore gossipparo, ma il risultato che si ottiene è un lungo e divertito applauso degli astanti.
C’è anche spazio per una breve presentazione di Millet della Capsule Collection che dal prossimo inverno porterà il nome della gara: l’azienda francese ha legato il proprio nome all’evento, segno che il Tour du Rutor ha una fama che va ben oltre i confini nazionali. Al termine tutti a tavola, perché questa due-giorni chiusi nel triangolo delle Bermuda alpine tra Monte Bianco, Cervino e Monviso, è anche (e soprattutto, aggiungiamo noi) il piacere della scoperta di sapori centenari che qui hanno voluto preservare dalla globalizzazione dei gusti e dei saperi.
E POI A TAVOLA
La erre dolcemente arrotata di Vilma, la locandiera del ristorante Le Vigneron, accompagna ogni piatto che esce dalla cucina a firma dello chef Marco Augusti con cenni storici di pietanze consumate dal secolo scorso e con parole che accarezzano i vini valdostani che ogni volta che li beviamo esplodono in tutta la loro forza per essere cresciuti a quote dove un tulipano farebbe fatica a sbocciare.
L’apoteosi si raggiunge con dei ravioli che meriterebbero il titolo Unesco Patrimonio dell’Umanità. Si consuma così la serata in attesa che la notte avvolga nel piumone del hotel Ruitor, l’attesa per l’indomani.
E la mattina arriva, puntuale e dal cielo è sgombro di nuvole, e con lei un elicottero che ci aspetta a Planaval per portarci sul ghiacciaio e renderci più agevole il sopralluogo di parte del tracciato di gara, naturalmente di una sola delle quattro frazioni del Tour du Rutor.
Il ghiacciaio è un enorme catino a oltre tremila metri di quota: dai piedi della vetta che regala il nome al luogo in cui ci troviamo, vediamo di fronte a noi il Monte Bianco, la Grand Jorasses e il Dente del Gigante, più a destra il Cervino, e tante altre vette che Camandona ci indica come fosse la app Peak Finder. La forza della frequentazione.
SALIAMO IN VETTA
Mettiamo le pelli e in quaranta minuti saliamo alla cima con qualche traverso e brevi lezioni di inversione, che se non sei capace è sempre un casino. In vetta la classica foto di gruppo, e i sensi di colpa per esservi salito in modo “anomalo” lasciano il posto alla vista di centinaia di vette innevate: ti chiedi dove sia la fortuna di poter godere di un regalo del genere. Il tempo di un paio di selfie e via, giù in discesa, tra neve fresca in quota, e neve trasformata e pesante verso fondovalle. Girare le punte degli sci non è sempre agevole, Francois (di cognome fa Cazzanelli ed è uno dei più forti alpinisti in circolazione) fa buona guardia agli impediti come chi scrive prestato allo skimo per un giorno, ma ciò che conta è arrivare alla curva successiva. È lo scialpinismo, bellezza, e tu non ci puoi fare niente, se non apprezzare quel senso di libertà che solo la montagna ti dà.
GLI AZZURRI DELLO SKIMO
Con noi anche atleti della nazionale azzurra come Maguet Nadir, sorridente come sorridono i ragazzini della sua età, e Natalia Mastrota, sì proprio la figlia del presentatore TV e della showgirl Estrada che a una possibile carriera nello spettacolo ha preferito sin da bambina i profumi e le emozioni della natura montana.
Arrivati alla fine della discesa, sfilo dallo zaino la felpa arancione di Millet con il logo della gara sulla manica sinistra, e torno a indossarla, aspettando il pulmino che ci porterà di nuovo a Planaval da dove eravamo partiti questa mattina. Quasi duemila metri di dislivello e molti silenzi. Ora le chiacchiere ritornano padrone del gruppo, mentre il Rutor resta in silenzio, là sopra, magari ascoltandoci, osservandoci nel nostro deambulare per i suoi canaloni, aspettando così marzo 2020 e una gara dal sapore antico.
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