La Sala da Barba di Sampieri.
Se non fosse per quella insegna a caratteri cubitali, forse non me ne sarei nemmeno accorto, l’avrei sfiorata ogni mattina mentre scendevo al mare senza degnarla di alcuno sguardo, ma quella scritta semplice e al tempo stesso elegante d’un tempo che fu, mi ha catturato senza che potessi fare opposizione. Come si fa a resistere alla scritta “Sala da barba”, com’è possibile restare distaccati da un luogo che porta un nome così evocativo. Penso a una cripta per la bellezza maschile, a una sacristia dell’edonismo ominide.
L’altra mattina, passando davanti alla Sala da Barba di Sampieri con la mia bicicletta, ho rallentato cercando di guardare oltre i vetri delle due sottili porte azzurre che fanno anche da vetrina. Dentro ho visto un signore distinto in una giacca bianca da barbiere che si prendeva cura dei capelli di un giovanotto. Ho accelerato e me ne sono andato, però prima ho dato un’occhiata a quella insegna scritta con un pennello bianco su fondo blu chiaro: non un lavoro da professionista, ma proprio per questo un primo indizio di genuinità.
Il giorno dopo decido di attraversare quella porta azzurra con lo stesso sacrale rispetto con cui si valica il soglio pontificio. Ad accogliermi, prima una carezza d’aria fresca garantita dal condizionatore, e a seguire il buongiorno del signore in giacchetta bianca.
Mi dice che lavora solo su appuntamento, e così cerchiamo una data e un orario che possa andar bene a entrambi. Per un breve momento abbandona il cliente sulla sua poltrona, e prende un piccolo blocknotes, tipo quelli della Pigna, dove segna ogni mezz’ora il nome di un cliente. La calligrafia è semplice ma ordinata, precisa e pulita.
Propone lunedì, ma chiedo di fare il giorno dopo.
“Martedì tutta la mattina libera, quando vuole?”
Facciamo per le 8 e mezza, così mi sveglio con calma, vado alla “Sala da Barba” e poi faccio colazione. Ed è così che, come per magia, il nome Brena appare su quel piccolo blocknotes. Lo sguardo del signor Giovanni è delicato e riservato, si arrampica intorno alla mia testa per capire in realtà in cosa lui potesse essermi d’aiuto, visto che dal 2003 sono calvo e praticamente senza più barba.
Incrocio il suo sorriso, e con un gesto del capo, sancisce l’appuntamento.
Saluto il signor Giovanni, e lascio il giovane cliente tornare sotto il pettine del barbiere, mentre il profumo di acqua di colonia che trasuda dalle pareti mi accompagnerà per tutto il giorno.
A me non sempre piaceva andare dal parrucchiere: da ragazzino entravo con la faccia da Via Pal, e uscivo con la riga in parte di studente salesiano. Sembravo un precisino, e non mi ci vedevo, ma Mamma Carolina non ammetteva i capelli lunghi.
Sotto naja neanche il capitano ammetteva acconciature fuori ordinanza, e il fatto che mia madre e un ufficiale dell’esercito italiano avessero gli stessi gusti la dice lunga sul piglio autoritario della prima, e sull’assenza di fantasia del secondo.
Questa mattina, ore sei, sono sveglio con gli occhi piantati sul soffitto: succede sempre così quando ho un appuntamento importante. Non c’è bisogno di mettere la sveglia perché l’orologio interno mi fa schiudere le palpebre. Tiro fino alle sette e mezza, poi doccia, braghini corti e bici.
Alle 8.29 entro nella cripta della Sala da Barba, e in quel preciso momento la giacca bianca mi regala il suo buongiorno.
Quando ti siedi su una poltrona come quella del signor Giovanni sembra di posare il sedere su un trono, diventi il protagonista della prossima mezz’ora. Appoggia una salvietta sul busto qua davanti e ne infila i lembi dentro la mia maglietta, lasciando il collo il più libero possibile.
Mi guarda rimbalzando sullo specchio e dice “Cosa facciamo?”
È la domanda che scatena il tutto, da adesso in poi non si scherza.
Da una settimana non mi faccio né barba né capelli, ho lasciato crescere quei quattro peli ribelli che mostrano le chiazze della alopecia sulla testa e l’età che avanza sulla barba bianca.
Gli dico che mi piacerebbe che lasciasse le basette, ancorché bianche e un poco d’antan. Un vezzo estivo che sparirà presto. Mi guarda e acconsente.
E con nostalgia penso a quando, trent’anni fa, facevo la barba due volte al giorno, una al mattino per coerenza con giacca e cravatta che il lavoro imponeva, e una alla sera per non grattugiare le guance di fugaci amicizie femminili.
Il signor Giovanni distribuisce creme emolienti sui tutto il viso, poi prende il pennello e insapona, e solo dopo afferra il rasoio e a mano libera inizia il suo lavoro.
“Ho incominciato all’età di nove anni, e oggi che ne ho settanta, ancora ho la passione per il mio lavoro”.
A diciannove era un barbiere fatto e finito, indipendente in tutto. Compiuti i trent’anni emigra in Venezuela, dove conosce una splendida donna domenicana che diventerà di lì a poco sua moglie.
Ma poi il richiamo per la terra natia è così forte che lascia la Sala da Barba di Caracas costruita con altri due soci, e a cinquant’anni rincomincia una nuova avventura in Sicilia. La sua Sicilia.
A dispetto di chi gli diceva che sarebbe stato un pazzo a mollare il Venezuela oggi questo piccolo artigiano della bellezza maschile dimostra a tutti che le sfide si raccolgono e con intuito e perseveranza si vincono.
Ma anche con competenza, ovvio. Il signor Giovanni è esperto e lo si capisce da come appoggia le dita sul volto: con la mano sinistra tira la pelle, con la destra il rasoio taglia i peli. È un continuo gioco trapezioidale: tira di qua e taglia di là, poi fa il giro della poltrona e contro luce intercetta altri peli. Tira e taglia. Ha mano ferma, delicata, precisa: in altre parole imbattibile.
Mi racconta del suo Venezuela, di come viveva e di quello che gli abitanti del posto cercano: “Alcol, musica e donne”. E lì avrei voluto dirgli che durante la sua assenza dal continente europeo, un inglese dal nome Ian Dury scrisse una canzone manifesto per quella generazione degli anni 70: Sex, drugs and rock’n’roll. E anche nella musica dell’inglese non c’era spazio per la quarta voce, quella del lavoro.
La porta azzurra si apre, ed entra un signore che saluta il signor Giovanni il qual risponde con un cordiale “Buongiorno dottò”.
Capisco che la mezz’ora di delizia sia finita. Mi passa sul viso un panno bollente, e poi subito dopo un freddo. Ancora una crema e poi toglie la salvietta sbattendola, e facendo un passo indietro mi guarda come dire: Lavoro fatto!
“Quanto le devo?”
Lascio sul banco dodici euro, mentre il signor Giovanni prepara la ricevuta: me la consegna e girandosi verso di me, mi stringe la mano. Mentre esco dalla Sala da Barba, la voce del signor Giovanni è tutta per il nuovo cliente. Il suo sguardo rimbalza sullo specchio e dice: “Cosa facciamo?”.
Anche per lui, da adesso in poi, non si scherza.
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