KATHRINE SWITZER, LA BOSTON MARATHON DEL 1967 E IL PETTORALE 261
E quella corsa che cambiò il corso della storia. A quel tempo le donne non erano ammesse alle maratone perché si diceva che il podismo poteva creare problemi al loro apparato riproduttivo e all’equilibrio psichico. Ma una ragazza di vent’anni si infilò abusivamente tra i concorrenti e il resto della storia è tutta qua.
Nel 1967 il mondo è nel cuore di un epoca di grandi cambiamenti. Gli Stati Uniti stanno affondando nelle paludi del Vietnam, ostaggi di una scellerata politica espansionistica, mentre qui da noi si è sotto scacco della Chiesa e di Papa Paolo VI che per contrastare l’ormai inevitabile legge sul divorzio contrattacca con una dura omelia sull’indissolubilità del matrimonio. Nella prima metà di giugno Israele sconfigge Egitto, Siria e Giordania nella famosa Guerra dei Sei Giorni. Più a nord, in Svezia, cambia il senso di marcia nella circolazione stradale: tutti dovranno tenere la destra come nel resto dell’Europa continentale. A Londra i Beatles pubblicano Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band e Christian Barnard a Città del Capo compie il primo trapianto di cuore della storia. A ottobre, poi, Che Guevara viene catturato in Bolivia e fucilato. E anche nello sport ci sono un sacco di cose belle che segnano la storia di questo pianeta, e a me piace ricordarne due: Felice Gimondi vince il cinquantesimo Giro d’Italia, e Philip Knight con Bill Bowerman fondano una società per produrre scarpe performanti per correre più veloce di tutti. Nasce così la Nike.
O forse ce n’è una terza, non così eclatante ma significativa per ciò che rappresenta dopo cinquant’anni. È lunedì 17 aprile e a Boston si svolge la 71esima edizione della maratona. La temperatura si aggira intorno ai 10 gradi e il neozelandese David McKenzie vince con il tempo di 2:15:45 battagliando tutta la gara con un italiano, il sardo Antonio Ambu che finirà quinto in 2:18:04, e dietro loro altri 98 partecipanti, secondo la classifica ufficiale. Tutti uomini. Tutti di sesso maschile, come dice il regolamento. Tutti eccetto una. Perché lì in mezzo a quei maschi, si è intrufolata Kathrine Switzer, vent’anni compiuti da poco: così giovane ma, come si vedrà più avanti, in grado di cambiare il corso della storia del podismo femminile.
A onor del vero, Kathrine non è la prima donna a partecipare alla Boston Marathon. L’anno prima una bella ragazza di Cambridge nello stato del Massachusetts, che risponde al nome di Roberta Louise “Bobbi” Gibb conclude la gara, ma l’organizzazione non le riconosce il risultato. Il regolamento della Amateur Athletic Union (AAU) consente alle donne di correre la distanza massima di un paio di chilometri, non di più. Una regola che resterà valida fino a tutto il 1972. i fatti dell’epoca sono piuttosto chiari e documentati: nel febbraio del 1966 Bobbi Gibb si iscrive alla Maratona di Boston ma, dopo pochi giorni, la ragazza riceve una lettera da Will Cloney, direttore di gara: “… le donne non hanno la capacità fisica per poter correre una simile distanza, e nel rispetto delle regole AAU la invitiamo a gareggiare nelle prove di un miglio e mezzo”. Ripeto, siamo nel 1966. Risultato, la sua iscrizione è respinta. La piccola Bobbi Gibb è delusa ma non sconfitta. Con la lettera tra le dita della mano, la ragazza si rende conto di quanto sia importante correre una maratona, non tanto per una mera soddisfazione agonistica ma per quello che potrebbe significare sul piano sociale. La sua riflessione anticipò solo di un anno i fatti del 1967. La ragazza del New England si impone nella classifica (inesistente) femminile dal 1966 al 1968 completando così il suo personale triplete, ma soltanto nel 1996, in modo retroattivo e dopo una ampia istruttoria, la B.A.A. riconoscerà le sue vittorie, e nel nuovo albo d’oro ci finisce anche il secondo posto di Kathrine Switzer, la protagonista del nostro racconto.
Kathrine ha 19 anni e studia giornalismo alla Syracuse University, e ha una grande passione: correre. E nelle sue corse tra i viali della città nelle stato di New York, cresce il desiderio di partecipare alla gara delle gare, la Boston Marathon. Per mesi si allena, e per essere sicura di concludere la competizione, un giorno corre in solitaria fino a 30 miglia, ben più dei 42 chilometri e 195 metri della maratona. Ha persino una allenatrice, Arnie Briggs, con la quale controllano il regolamento della gara: non vi è alcuna proibizione alla partecipazione delle donne. E così si iscrive utilizzando le sue iniziali, K.V. Switzer: “Pensavo che KV Switzer fosse molto figo, tipo JD Salinger” disse molti anni dopo. L’organizzazione le assegna il pettorale 261.
Arriva il giorno della gara, è il 17 aprile 1967, esattamente 50 anni fa.
Lei, il suo fidanzato Tom Miller, e coach Briggs stanno correndo e all’altezza del secondo miglio di gara, succede un fatto increscioso. Gli organizzatori si accorgono della presenza di questo corpo estraneo ed entra in azione il direttore di gara Jock Semple che appena la vede si scaglia contro di lei, afferrandola per le spalle e gridando: “Dammi quel pettorale e vai via dalla mia gara”. Gli occhi rabbiosi dell’organizzatore colpiscono l’animo di Kathrine: “Dopo tutti questi anni, quello sguardo ancora mi tormenta”. Ma Semple non riesce nel suo intento: contro di lui il caso ha messo due ostacoli. Il primo si chiama Miller, il ragazzo del cuore che pesa 105 chili di puri muscoli e che spende il tempo a giocare a football: quando vuole rilassarsi si dedica al lancio del martello. Insomma, non proprio uno con cui è bello averci a che fare, e infatti gli basta una spallata per mettere fuori gioco il ligio e conservatore direttore di gara. La seconda sfiga è che lì vicino c’è il pulmino della stampa e un fotografo della Associated Press riprende tutta la scena con una sequenza fotografica che negli anni successivi, rappresentano una vera condanna morale per il povero Jock Semple. La nostra Switzer continua a correre per il resto della maratona, ma si sente umiliata, depressa e mortificata: “Quel tipo, Semple, non era altro che un prodotto di quel tempo” risponde a chi le chiede di raccontare il fatto. Negli anni 60 è inaccettabile per gran parte degli uomini che una donna possa correre così tanto senza mettere a rischio la propria salute, compreso il sistema riproduttivo “e il proprio fragile equilibrio psichico”. Ma è stata l’incazzatura che monta nell’animo di Kathrine negli ultimi chilometri di gara che la spingono a riflessioni importanti. “Le donne devono sapere quanto è bello correre, e non è colpa loro se non possono partecipare: non hanno avuto questa opportunità, mentre io mi ritengo molto fortunata!”. Kathrine Switzer finisce la Maratona di Boston in 4 ore e venti minuti, ma è il suo “confronto” con Semple che passa alla storia. Sulla via del ritorno lungo la New York State Thruway, i giornali della sera pubblicano la sequenza fotografica, e da quel giorno la sua vita cambia.
Continua gli studi e si laurea, sposa il bodyguard Miller e alterna i primi lavori nel campo del giornalismo e delle pubbliche relazioni con due allenamenti al giorno per un totale di 110 miglia a settimana. Nel 1974 vince la New York City Marathon e l’anno dopo chiude la carriera con la gara di Boston in 2:51’, il suo personal best.
Nel 1977 un alto dirigente della Avon, leggendo la sua storia, vuole incontrarla per proporle di organizzare ad Atlanta una gara per sole donne, e lei invece prepara una documento di 40 pagine con cui convince la corporation a organizzare una gara in tutte le città più famose. Nasce così il circuito Avon Running di cui lei resta il punto di riferimento per tutti gli anni a seguire, fino a quando nel 1984 è parte del team che si occupa della produzione televisiva della prima maratona olimpica aperta alle donne: siamo a Los Angeles, 1984. Vince l’americana Joan Benoit e per gli Stati Uniti è un ripudio. Venti minuti dopo l’arrivo della vincitrice le trasmissioni si stanno ormai chiudendo perché il podio si è completato, ma Kathrine chiede di tenere accesa una telecamera e puntarla sulla svizzera Gabrielle Andersen-Scheiss che entra nello stadio barcollando a causa di un colpo di calore dovuto alle alte temperature. L’elvetica ci impiega sei minuti per completare il giro di pista, e le telecamere della ABC non la mollano un minuto: diventano immagini virali su tutti i canali. “Da una parte un bel lavoro giornalistico dovuto a una intuizione – commenta Kathrine – ma dall’altra avevo paura che qualcuno dicesse che non era il caso di far correre la maratona olimpica alle donne”. Ma la storia le dà ragione.
Con la corsa la settantenne Switzer si mantiene fresca e attiva: cinque anni fa chiude la Maratona di Berlino in 4:36’ “…ma speravo di farla in 4:20’” è stato il suo commento. Oggi c’è la Maratona di Boston, e dicono sia iscritta: ma questa volta non c’è nessun Semple che la butterà fuori. E nemmeno un Miller che la difenderà: si sono separati poco dopo il matrimonio. La corsa a piedi è salutare per molti, ma con i matrimoni non fa miracoli.
PS: e la storia si è conclusa con Kathrine Switzer che conclude la Boston Marathon 2017 in 4:44’31” e il suo pettorale 261 è stato ritirato.
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